lunedì 20 dicembre 2010

Se questa è una Donna - esperienze di parto

Mi hanno registrata; mi hanno fatta spogliare; mi hanno detto di indossare la camicia da notte; mi hanno rasato il pube; mi hanno applicato un clistere.
Dopo questo trattamento se ne sono andate, lasciandomi lì a lamentarmi; mi guardavano ostili, come se avessi fatto qualcosa di male. Varcata la soglia dell'istituzione, sentivo che mi avevano sottratta al mondo esterno, e che da quel momento era inutile protestare.
Le contrazioni aumentavano e io avrei voluto cambiare posizione, alzarmi sulle ginocchia o mettermi giù accovacciata sui talloni. Loro venivano e mi facevano ridistendere a letto: vedessi di non fare troppe scene.
Dopo tre ore di travaglio, in cui ad ogni contrazione sentivo le ossa del bacino aprirsi, divaricarsi, e il ventre come spaccarsi, un dolore alla schiena come di ferro, mi hanno caricata sulla barella e depositata contro un muro, nell'anticamera della sala parto, un luogo freddo e nudo. Lì una donna che mai avevo vista prima, mi intimava di spingere: Non lo vuoi aiutare il tuo bambino? Io ero in panico, il dolore era più forte di qualsiasi cosa avessi mai immaginato e non potevo tornare indietro, chiedere una pausa, riprendere il respiro, quella cosa immensa e dilaniante andava avanti senza di me. Non ero preparata, al corso avevano parlato di norme igieniche, più che altro, e raccomandato di non mangiare taluni alimenti durante l'allattamento. Ora mi trattavano come una bestia, come una ridicola bambina viziata che vada raddrizzata. Dopo qualche tempo trascorso in quell'anticamera, mi hanno fatta avanzare sulla barella in sala parto, un luogo tutto neon e acciaio, freddissimo. La dottoressa stava lì senza esprimere alcuna simpatia umana, ridicola con la sua cuffietta verde, e sembrava infastidita da un parto alle otto di sera. Ad un certo punto del travaglio ha tirato su una lama e mi ha tagliata con decisione, ho sentito il freddo improvviso del metallo sulla carne. Il bambino è stato tirato fuori ma io non ho potuto vederlo, ho chiesto se fosse maschio, come sembrava dalle ecografie, ho implorato Fatemelo vedere, fatemelo vedere!, ma la procedura andava avanti oltre noi, oltre mio figlio, che nel frattempo veniva pesato, misurato e vestito, oltre il mio desiderio di vederlo, di conoscerlo nel suo primo istante fuori del mio ventre, nel suo primo atto di respiro, andava oltre il nostro diritto ad annusarci, ricompensarci per la fatica vissuta insieme. La ginecologa ha ignorato il mio pianto e ha preso a cucirmi il taglio, senza anestesia, e io con gli occhi sbarrati non potevo credere, non potevo credere che lo facesse davvero, che mi passasse l'ago e il filo, che potevo ben vedere, là sotto, dentro tutto quel dolore, come se fossi una bestia al macello.
Ho visto mio figlio quando mi hanno riportata in stanza. Era nella culletta, vestito della tutina gialla che avevo preparato. Era blu ed è rimasto così per molte ore. Mi sembrava triste. L'ho messo subito al seno e l'ho amato dal primo istante. Ma ero piena di rancore e delusione. Avevano rovinato irrimediabilmente il nostro primo incontro, tanto atteso, lo avevano accolto con luci fredde e acciaio, senza amore, distante un universo intero dal mio grembo, dal mio calore, dalle mie grida sul banco dei parti in serie.
In quella clinica a Lecce, mi proposero da subito latte artificiale per non far piangere il bambino nell'attesa della montata lattea, che poteva durare due giorni, e io mi rifiutai astiosa. Feci una cosa che nessuno poté capire, per effetto di un istinto antichissimo. In stanza con me c'era una donna che era al suo quarto parto. Il suo seno aveva subito risposto al programma ormonale ed era così pieno che le faceva male: temeva anche che l'eccesso di latte lo intasasse. Ci siamo guardate, è stato un attimo. Lei ha capito subito. Mio figlio piangeva, le ho detto Me lo allatti tu? Lei è stata la prima donna che ha nutrito mio figlio. Le sarò per sempre grata per quella complicità. Si è allora creato fra noi due donne un legame che ancora oggi sopravvive. Il 16 novembre ogni anno ci scambiamo gli auguri per il compleanno dei nostri figli, nati a mezz'ora di distanza.
Di giorno ogni tanto venivano le donne e mi portavano via il bambino, mi dicevano che doveva stare un po' nel nido. Ogni volta che allontanavano la sua culletta diventavo triste. Piangevo al telefono con mia sorella. Mi sentivo impotente, la procedura era priva di senso, ma non si poteva protestare, il rapporto con il mio bambino era determinato dall'istituzione. Io e lui non contavamo.
La mattina prima di dimetterci portarono noi neo-mamme in una stanza dove ci mostrarono come fare il bagnetto al pupo. Le ostetriche fecero il primo shampoo ai neonati, con un prodotto Chicco pieno di profumo. Ci dissero che il corpo e la testa dei bambini vanno lavati ogni giorno.
Io e mio figlio abbiamo impiegato moltissimo tempo per recuperare quel primo strappo. Abbiamo poi dormito molte notti insieme a letto. Per lui il paradiso era addormentarsi al seno, non perdere il contatto, sentire che non lo lasciavo solo.

* * *

Diciannove mesi dopo, a Berlino, sotto altre condizioni, è nata mia figlia.
Sono arrivata nella città incinta di quattro mesi. Dopo aver trovato casa la prima cosa che ho fatto è stata contattare la Hebamme, l'ostetrica che l'amica di una conoscente mi aveva consigliato. Durante i due mesi di preparazione al trasferimento da Lecce a Berlino, sulla base della borsa di studio del mio ultimo anno di dottorato, ho soprattutto cercato alternative a un'esperienza di parto che avevo vissuto come una violenza sulla persona. Sapevo che in Germania un attivo movimento di donne già da tempo si batteva contro l'ospedalizzazione delle partorienti per un ritorno al parto in casa. Queste donne erano sostenute da un fermento di idee che coinvolgeva anche i medici e che aveva avuto come esiti una cultura del parto naturale (mentre nell'Italia meridionale una percentuale incomprensibilmente alta di donne subiva il taglio cesareo), una diffusione del parto dolce, del parto in acqua, una lotta contro l'allattamento artificiale che era indiscutibilmente dannoso per il bambino e insano per la relazione madre-figlio (circolavano ad esempio testi che incoraggiavano le donne ad allattare il bambino sino ai tre anni), una ritrovata titolarità della partoriente rispetto alla possibilità di scegliere come partorire. Le donne in Germania portavano il neonato nel Tragetuch, una fascia in cui lo avvolgevano sino all'incirca ai nove mesi, perché durante la giornata, in casa o fuori, rimanesse il più possibile a contatto con la madre, con i suoi odori, la sua voce, il suo battito. Si prendevano ad esempio le donne africane che svolgevano tutti i lavori con i figli avvolti sulla schiena o sul petto, permettendo così al piccolo di apprendere indirettamente i movimenti naturali del corpo e di essere nel mondo con un senso di sicurezza e vicinanza. Questi movimenti di idee erano non solo contro l'allattamento artificiale che causava fra l'altro allergie, ma anche contro tutti i surrogati materni: contro il succhiotto e contro il passeggino che (pensiamoci bene) è un artefatto imposto dal mercato, nefasto perché costringe il neonato alla solitudine, alla separazione dal corpo della madre, che è la prima fonte di apprendimento, all'immobilità sulla schiena, ad un approccio al mondo da una posizione costretta.
Scoprivo che si poteva arrivare al parto in modo consapevole. Da subito, senza neppure conoscere la lingua, mi inserii nel corso di accompagnamento alla gravidanza e preparazione al parto. Era un universo completamente diverso, sconosciuto. Katrin, l'ostetrica che avevo scelto, faceva un lavoro con noi donne che io comprendevo in modo intuitivo, per imitazione e con l'aiuto dell'inglese. Ci faceva entrare nel nostro corpo. Da lì partiva l'esperienza consapevole del parto. Ci mostrava filmati di parti naturali secondo il metodo del medico Leboyer, in cui si vedevano uscire i bambini dal ventre senza contratture, senza traumi. Il metodo proponeva che la donna nell'atto dello spingere emettesse dei suoni come un canto anziché grida. Infatti, gridare vuol dire resistere al dolore, contrarsi, e quindi impedire al parto di procedere. Emettere suoni vuol dire accompagnare la spinta, andare incontro a quel dolore immane senza irrigidirsi, senza bloccarlo dentro, tirarlo indietro. Erano scoperte affascinanti. Capivo che la donna poteva amare il suo corpo e dialogare anche attraverso il dolore con il proprio bambino. Scoprivo che la gravidanza è una preparazione a un rapporto che è innanzitutto con il proprio corpo. Un'immersione nel proprio mistero. Un'accettazione del mistero. Infatti, quella furia dell'ospedalizzazione, quella mania di medicalizzazione, quel ricorrere ogni mese ad ecografie, controlli, quell'abdicare completamente ai medici e alle infermiere non era forse una rinuncia al mistero, all'insondabile, alla forza della vita che da sola decide, avanza, ripara, provvede? Un rinunciare alla propria competenza istintiva, naturale? Ad assumersi le responsabilità della scelta?
E così io decisi di non partorire in ospedale. Mai più avrei subito quel trattamento, la deposizione degli abiti "civili", la depilazione forzata del pube, il clistere. La mia ostetrica tedesca, Katrin, faceva partorire le pazienti nella sua Geburtshaus (letteralmente "casa della nascita"), una graziosa casetta nella prima campagna della ex Berlino Est.
Un giorno di luglio sentii, come per il primo parto, fluire lungo le mie gambe un liquido sottile e caldo: il liquido amniotico. Riconobbi il segnale - era mattina - e avvisai l'ostetrica. Accogliendomi nella Geburtshaus, mi fece sistemare nella bella camera, con le pareti dipinte di rosa, il letto matrimoniale romantico, la finestra che dava sulla campagna e una sedia a dondolo posta a lato del letto dove lei si accomodò durante il travaglio. Dalla stanza si accedeva al bagno dove era disponibile la vasca per il parto in acqua. L'attesa durò moltissimo: di fatto forse un'unghietta della bambina aveva forato il sacco e fatto fuoriuscire un po' di liquido, ma in realtà le contrazioni non erano cominciate. Quindi l'ostetrica mi propose di fare una passeggiata fuori in campagna per le vie che passavano accanto ad altre case simili alla sua: al rientro ci mettemmo a chiacchierare e, siccome era ormai ora di pranzo, spedimmo mio marito a cercare qualcosa da mangiare, compito non facile in quella zona desolata e periferica della città. Tornò dopo mezz'ora con hamburger e patatine: aveva trovato solo un fastfood aperto vicino ad un centro commerciale. Mangiammo e ci disponemmo ad attendere segnali dalla bambina. Era un peccato non parlare ancora bene il tedesco, avrei voluto chiedere tante cose su quel mistero. L'ostetrica si prendeva cura di me totalmente, come se fossi importante. Di fatto, attraverso di me passava una nuova vita che aveva diritto al benessere, ad una buona accoglienza. Perché ogni bambino felice, rende più felice il mondo. Katrin di tanto in tanto mi massaggiava il pancione con un olio alla cannella, sostanza che stimola le contrazioni. Sentivo di essere nelle mani di una donna che era piena d'amore e di rispetto per quello che succedeva attraverso di me.
Le contrazioni giunsero a sera. Eravamo tutti stanchi di attendere. Katrin cominciò le vocalizzazioni. Ogni volta che una fitta mi attraversava schiena e ventre, lei si alzava dalla sedia a dondolo e mi veniva vicina per lanciarmi una vocale aperta, la o o la a, con la quale mi aiutava a sintonizzarmi sull'intensità della spinta. Mi propose anche di andare in vasca: per un po' mi fece bene, in acqua sopportavo meglio le contrazioni. Ma mi sentivo impedita nei movimenti, così uscii e mi rimisi a letto, dove, su suo invito, cambiavo continuamente la posizione: a quattro zampe, in ginocchio con mio marito che mi teneva le braccia dietro, o come meglio mi sentivo. Intanto continuavano le emissioni vocali, e lei era sempre lì, amorevole e paziente. Era ormai notte: arrivarono le ultime contrazioni fulminanti, quelle che dilatano, spaccano il bacino. Nell'ultima ora di travaglio giunse un'altra ostetrica, silenziosa, ad assistere Katrin. E così, fra vocalizzazioni e con un ultimo grido lunghissimo, alle due di notte, è nata mia figlia, bella come una rosellina, senza una rughetta, in pace con il mondo. Katrin me l'ha appoggiata subito al seno, entrambe eravamo nude, lei era avvolta nel mio muco, nei miei liquidi, era anche sporca di sangue e come molle, piccolissima, e io per la prima volta ho sentito quell'odore, quell'odore indescrivibile di ventre e di placenta, di bozzolo di neonato. Non ho perso neppure per un istante di vista mia figlia. Mio marito ha tagliato il cordone ombelicale (secondo il parto dolce il neonato può rimanere attaccato al cordone per qualche minuto dopo la nascita, per abituarsi lentamente al passaggio alla vita extrauterina, ma ho sangue di gruppo Rh negativo, e perché non si mischiasse al suo, positivo, io e la piccola abbiamo dovuto dividerci subito). Ricordo che mi è stata richiesta un'ultima terribile spinta per estromettere la placenta: l'ostetrica l'ha raccolta e conservata in un sacchetto. Quindi ha misurato in modo rapidissimo peso (con una bilancia a mano d'altri tempi) e lunghezza per compilare il certificato di nascita, e mi ha restituita la bambina al seno. Si è allontanata un attimo per prendere una vaschetta di acqua tiepida che ha deposto sul letto, invitando il padre a fare alla piccola il primo bagnetto. Quindi l'abbiamo vestita di cotone bianco. A questo punto Katrin ha sistemato della frutta fresca sul comodino e ci ha lasciati soli. Ha chiuso la porta dicendo: Riposatevi con la vostra bambina, vi chiamo fra qualche ora.
La piccola, il nostro tesorino dolce, riposava tranquilla sul lettone in mezzo a noi. Alle sei, quattro ore dopo la nascita, l'ostetrica ci ha chiamati. Ci ha consegnato la placenta in una busta e ci ha abbracciati per lasciarci tornare a casa. Prima dell'alba ero da mio figlio, per presentargli la sorellina.
Il giorno dopo, e per dieci giorni, Katrin è venuta a trovarmi a casa. Mi ha medicato le lacerazioni del parto, ha controllato la bambina e il suo peso, ha conversato con me sull'andamento dell'allattamento, e mi ha insegnato a fare il bagnetto alla piccola nel lavandino, senza sapone né shampoo almeno per il primo mese: solo pura nobilissima acqua tiepida.
Quel giorno io e mio marito siamo andati nel Viktoria Park, abbiamo scelto un boschetto di Eibe, e sotto un tasso dalle bacche rosse, imponente e verdissimo, abbiamo piantato la placenta che ha nutrito la nostra piccola. Così si fa nelle antiche culture. La mia placenta, ricchissima di nutrienti, nutre la terra che prima ha nutrito me, madre.