venerdì 23 ottobre 2020

Lettera

Il mio amico carissimo è morto. 

Si è incamminato verso il declino 
un controllo dopo l'altro
precipitando.
Gli ultimi mesi era chiuso in una cella
sterile, a guardare serie su Netflix.
L'incarnato innaturale, le spalle smilze,
lo sguardo terrorizzato
solo
alla finta finestra del quarto piano
stazione cinquanta camera dieci
attendendo che le cellule cannibali
finissero il lavoro.
Di lui volevano tutto
lo stomaco la linfa l'aria
il futuro dei figli guardato dalla cella
in cui sarebbe morto inutilmente
inutilmente inutilmente morto.
Un giorno era seduto annebbiato
sulla sedia in controluce
a ricevere le visite
il giorno successivo a letto
composto con un disegno del figlio
sulle mani giunte, un corvo nero.
Perché un bambino di cinque anni
disegni un corvo nero
spiegamelo tu ora che vedi la nostra miseria
in questa cella
dall'altra parte dello specchio.
La vita per un morto
non è finita, ti spettano ancora
i nostri lutti e la rivalsa
contro i tuoi ultimi giorni.
Mi sembra di non poter gioire
ora che non ho te per condividere
i nostri piccoli dispiaceri 
di immigrati orfani di terra
e i grandi temi che ci piegavano.
Riuscivi sempre a volgere tutto
in filosofica accettazione
persino la prima volta che tua figlia
disse a sorpresa davanti a tutti 
la parola proibita.
Se almeno tu mi avessi scritto una lettera
anziché passare tutto quel tempo
a narcotizzarti con le serie americane
aspettando di uscire dal ricovero
se almeno io avessi un tuo foglio
vergato debolmente e lucido
con le parole della nostra amicizia
con l'eternità dell'amore
almeno una filigrana estrema
della tua presenza
almeno la luce
in fondo
il tuo nome
Umberto

domenica 11 ottobre 2020

MONOLOGHI

1.

L'allegoria di Eva creata da una costola di Adamo è verità: la donna non ha forma propria, la assume da altri. Il corpo delle donne sono ricettacoli e contenitori, si sformano con le gravidanze, si modellano agli umori e al latte, vengono attraversati da esseri umani nascituri; fanno spazio al turgido membro maschile, vi si adattano e subiscono le sue incursioni; tenendo in grembo un bambino le donne diventano caverna, focolare, guanciale, dormendo accanto ai neonati incastrano forma a cucchiaio a forma fetale, spingendo carrozzine, reggendo i bambini sulle spalle e le sporte con la spesa si curvano, si fanno portantini; le mani delle donne si fanno fronde pieni di frutti; i loro occhi salici piangenti.

Invidio le donne che si inventano un viso diverso davanti allo specchio, per se stesse, per gioco, truccandosi come bambine svagate. Non ho mai imparato a truccarmi, a giocare con colori e ombre su quelle brevi colline e spelonche: pigrizia; sono crudele con il mio viso perché lo lascio esporsi così com'è, con la fatica delle notti sterili, senza carezze e senza buoni sogni. 

Una volta che i figli saranno grandi, riavrò il mio corpo solo per me, per godermi gli acciacchi e le fitte alle anche. E riavrò pure il mio tempo per me, sinora frastagliato e interrotto, puntellato dalle esigenze familiari, piegato alla forma della tuttofare: e con il tempo libero, scoprirò che sarò molto libera di essere finalmente quella che sono e poco sicura che ne valga la pena. Ma è sciocco dire "riavrò il mio tempo": quel tempo, con quella qualità, con dentro tutto quel futuro e senza il vizio di venir considerato così importante, non torna indietro. 

A furia di contenere i nostri figli, nella nostra forma-corpo, nel nostro cuore, nei sonni sempre violati, nei passeggini e negli asili da raggiungere con la furia del ritardo, conteniamo pure noi stesse in spazi ristrettissimi. Nasce un bambino e il giro del mattino si limita a due strade: panettiere, drogheria, alimentari. Facciamo il solco. Non prendiamo neppure una traversa, tanto siamo concentrate e disilluse. Imprese più grandiose vengono pagate a caro prezzo, con un esaurimento. Perché facciamo tutto questo? Credo che abbia a che fare con una verità biologica, una truffa psicologica e uno stoicismo fatale. In fondo, che alternative abbiamo?

I figli se ne vanno e io faccio non spazio ma vuoto.



2.

Ho cresciuto i miei figli con rabbia. La furia del tempo che perdevo dietro a loro dava una connotazione violenta alle mie ore. Rispondevo secca, a chi osasse commentare, con l'aria svenevole delle falsità, lo scorrere veloce del tempo, che a me invece il tempo pesava come pietre, e che mi sembravano passati secoli da quando era nato il primogenito e che sarei già dovuta essere una matusalemme a onore della fatica che avevo fatto. Chi afferma una cosa così stucchevole, medico o imprenditore o attrice in età senile, non ha cresciuto i figli personalmente, ma si è limitato a scattare una foto di famiglia a Natale mentre il resto dell'anno neanche si è accorto che le Carlotte e i Luigi gli crescevano accanto. Le madri che si occupano ogni minuto dei propri figli covano insofferenza verso chi vive di teorie e speculazioni: state alla larga dal loro potenziale inesploso, potrebbero perdere la pazienza.

Sono stata la schiava dei miei figli, il bersaglio di ogni lamentela, il contenitore di tutte le memorie. Per poi scoprire che le mie impressioni non coincidono con le loro. Per i miei figli non sono colei che c'era sempre, ma quella che ha disturbato e tolto. Ho interpretato male tutto. Un giorno i miei figli mi diranno forse di aver invidiato i bambini che venivano lasciati soli dai genitori sino a sera, con la cena fredda e i compiti ignorati, perché quei genitori sempre assenti alle recite scolastiche erano gente interessante, registi o architetti sempre in viaggio. Io sono stata insegnante. Mio figlio mi ripete con sdegno che fare l'insegnante vuol dire essere condannati a restare poveri. Come posso biasimarlo? Maestre sono da sempre state le donne sole o accompagnate da uomini con posizioni solide: un'occupazione femminile e rispettabile, di contorno. Quelle senza marito e con figli fanno invece la fame. 
Sì, sono affamata. Ho fame di una stanza tutta per me con la finestra incorniciata da rampicanti selvatici, affacciata su una valle erbosa. Dalla mia finestra vedrei un cielo color pitone, il cielo lampeggerebbe in verde mentre i campi blu fiordaliso risuonerebbero in la.

Di queste mie fantasie si prendono gioco i miei figli. Dicono che invece morirò nel mio buco d'appartamento, perché con il mio lavoro da insegnante non posso permettermi altro in città. Mi ferisce non tanto la visione che hanno di me, topo murato nella tana, quanto che non abbiano alcuna intenzione di lottare contro la speculazione edilizia, anche se ne hanno subito le conseguenze. Dicono che loro sì guadagneranno un sacco di soldi da grandi. Io non ho alcun potere personale. Ho ripetuto gli errori di mia madre e ho fatto tutto a metà: mia madre era figlia di contadini, veniva picchiata e non ha studiato oltre alla quinta elementare; io sono stata picchiata da mia madre come una contadina ma ho potuto studiare sino al dottorato come una borghese; i miei figli non hanno mai mosso un dito in casa, dovendosi occupare solo di andare a scuola come figli di borghesi, ma non riceveranno un soldo di eredità, come figli di contadini. 
Il mio potere personale è inesistente. Non posso decidere come voglio vivere, cosa voglio concedermi, in che casa abitare, con chi passare la serata, che avventura sognare e nemmeno cosa preparare da mangiare. È stato stupido da parte mia ritirare le mie azioni dall'investimento familiare, e ritrovarmi a fare la domestica, mentre il padre, quello che se n'era andato, guadagnava credito, pur essendo un cretino. Dimenticare di essere un soggetto politico, sempre e con chiunque, anche con genitori e fratelli, anche con le amiche, è un errore. Adesso potrei essere una donna smagliante, nel pieno della raccolta, potrei permettermi il mutuo per l'acquisto di una casa, le vacanze audaci, un bicchiere di vino a cena in un bel ristorante, potrei dettare ai miei figli come comportarsi con me. Sono un soggetto in svalutazione.

Vedo i giovani padri al parco con minuscoli bebè nella fascia. Immagino le madri dietro a una scrivania. Ci stiamo provando a sfilarci dai nostri vecchi ruoli. Ma ci resta sempre il destino di madri: partoriamo, con indicibile dolore, i nostri figli e questi si rivoltano contro di noi tanto più violentemente quanto più diventa inaccettabile l'idea di essere usciti dalla nostra vagina.



3.

Mamma lasciami in pace, sparisci, vattene. Voglio solo stare tranquillo. Quando chiudo gli occhi sento la tua voce che commenta, ordina, esorta. Non ho voglia di fare quello che dici tu! Sei vecchia e piccola e non capisci nulla di me. Credi di sapere tutto. Non sei stata capace di mettere in ordine la tua vita e pretendi di dire agli altri come dovrebbero vivere. Sempre quel piglio da comandante! Ti conosco ormai. Quando c'è un problema e io ti dico come stanno le cose, tu fai sempre quella faccia benevola e riduttiva, fai finta di capire e poi alla fine si fa come dici tu. Non ci provi neanche a capire gli altri. Vai dritta pensando di avere ragione, e invece sbatti contro un muro. Che cosa hai combinato nella tua vita? E poi sei dappertutto. Non c'è modo di stare in pace qui in casa, la tua voce, i tuoi libri e quel tuo ultimo bambino che hai fatto sono dappertuo. Hai rovinato ogni cosa. Non ti si può dire niente, pensi di avere ragione, e invece sei un'illusa. Adesso hai la fissa del biologico. Non sei capace di comprare un dentifricio normale, che non sappia di rosmarino o limone. Qui c'è un caos tremendo, la mia vita non va, e tu ti metti lì sulla sedia e leggi, come se nulla fosse. Non sei capace di tenerti un uomo. Chi ti sopporta! Sempre qualche idea nuova, un finto entusiasmo per un'altra trovata, ma non riesci a vedere che noi stiamo male, in questo buco di casa, senza uno straccio di famiglia attorno. I pranzi della domenica sono tristissimi, non ho voglia di venire a tavola. 
Sai che ti dico? Me ne vado! Ti lascio alle tue favole e alle tue teorie. Per te è tutto bello, la scuola, i compagni, il futuro... Ma sai che tortura è passare sette ore della mia vita in quell'aula, tutti i giorni, sempre a sentire cosa dicono gli altri, una noia mortale! Non c'è niente di bello da fare, niente di interessante o utile! In pausa non possiamo neppure restare in classe a farci un po' i fatti nostri, dobbiamo uscire per forza in cortile, e fa freddo e stiamo lì a girare a vuoto sinché non dobbiamo rientrare e rimetterci sotto ad ascoltare per altre ore. Poi ci sono delle ragazze talmente stupide. Torno a casa e neppure lì sto tranquillo, ci sei sempre tu. Ho fame, ma quando ti vedo mi passa subito. Dammi qualcosa da mangiare e poi lasciami in pace a giocare sul cellulare. Uno avrà il diritto di stare da solo! Per te quello che faccio è tempo perso o inutile. Almeno quando gioco nessuno può immischiarsi! Alleno i riflessi e posso migliorarmi. Sono il più bravo della mia classe, ho raggiunto il livello più alto. Tu neanche ti interessi a quello che faccio! Pensi che sia tutto nei libri. Invece non sai niente, non hai idea... Quel poco che sai te lo rigiri come se fosse chissà che scienza ma in realtà non hai fatto altro che far crescere, male, noi figli. Quando sono in giro con te mi vergogno. Sei sempre sovraeccitata e finisci per fare figuracce. Io non voglio venire con te a fare compere o viaggi. Stammi alla larga. Sei isterica, gridi per un nonnulla. Non sei divertente, non fai ridere. Fai la spiritosa ma in realtà mi offendi. Ci provi a fare la moderna ma non sai niente, tutte le tue teorie andavano bene il secolo scorso, tu non hai idea di com'è veramente la vita per me. Lasciami in pace. Sono stanco e voglio dormire. Lasciami al buio. Non ti avvicinare con il tuo attivismo e le cose che potremmo fare. Che noia mortale. La tua voce è ovunque. A te una vita di stenti può bastare, ma io ne ho sin sopra i capelli di sentire la tua testa che pensa a come arrivare a pagare tutto. Cosa c'entro io? Hai capito che sono cresciuto? Ho i miei pensieri, i miei problemi e il mio corpo, che è anche molto forte. Non sono il tuo burattino.

Mamma, ti voglio bene, ma io non ce la faccio.



4.

Figlio mio, prima o poi morirò, cosa che mi auguri ogni giorno. In effetti sono già morta dentro di te, stai eliminando cellule della mia sostanza che ti presidiavano. Non sapevi allacciarti le scarpe, strizzare il tubo del dentifricio, chiudere l'astuccio, con le matite ammassate e sguscianti, non riuscivi a pronunciare bene i pensieri, che partivano sempre con un rollio vano della lingua, avevi paura dei compagni e non ti alzavi dal letto al mattino sinché non mi mettevo ad urlare. E così mi sono sostituita a te, per reggerti un pezzo di vita, per darti in prestito un po' di fibra. E ora queste appendici ti sono odiose, e le recidi come code di lucertola. Devo smettere di pensare che hai bisogno di me. Vai e prenditi quello che ti serve, là fuori. Mi sono rimaste le spalle curve, a furia di portarti, anche se adesso sei saltato giù. Avevi paura che mi avresti uccisa? Sì, forse ci hai pensato. Da cosa viene tutta questa rabbia? Hai una riserva immensa di rancore in quel corpo diventato lunghissimo in due mesi. Mi piacerebbe riuscire a chiederti scusa.
Invece abbasso la testa a ricevere le ceneri. 

Non sono isterica, come tu dici. Sono stanca. Non dormo bene, anche di notte sono vigile e all'erta, non sia mai che arrivi un colpo improvviso. Sono triste. Ho una palude dentro di me, con zampilli tiepidi, e sabbie marciscenti, e ristagni bruni, tutte le lacrime rimandate. Il centro dell'equilibrio non è nell'orecchio, è nel cuore.

Voi figli siete gelosi uno degli altri, vivete su un filo fragilissimo di fiducia precaria, pronti a denunciare favoritismi e ingiustizie. Vi sentite sempre traditi. Vi prego, guardatemi: siete gelosi per me? Avete bisogno da me il permesso di sentirvi amati sopra ogni cosa? La vostra paura è la mia paura: di restare soli al mondo. Da questa malattia non si guarisce.

"Se non sono felice è per colpa tua", dicono gli sguardi dei figli. È un peccato veniale che lo pensiate. Sarebbe mostruoso pensarlo a parti rovesciate. Se non sono felice non è perché non mi bastiate voi: io mi sono insufficiente. Eravate voi a darmi forma, ora contengo me stessa. E per me mi farò caverna, focolare, guanciale, contenitore, vuoto, melo in fiore, e salice piangente.



5.

Mamma, io ti vedo. Tu non ti accorgi di me, tanto sei presa dai tuoi figli maschi. Ma io ti vedo. Stai andando a fondo. Cerchi di nasconderti dietro piccole trovate, come mettere la musica la sera e ballare con me, ma io so che sei triste. Non ce la fai da sola. Ci provi, ma è tutto inutile. Smettila di fare promesse sul futuro. Non hai un soldo da parte, ti vesti male e il tuo corpo sta invecchiando. I miei amici dicono che sembri una ragazza, loro non sanno quanto puoi diventare brutta. Io ti vedo. 
Ma tu non vedi me. Eviti di posare lo sguardo sui chili che metto su, sulle carte di caramelle che nascondo sotto il cuscino, sul letto dove passo tutto il pomeriggio, che è anche scrivania, portaoggetti e nascondiglio. Guardami. Non ho una stanza per me, come tu non ne hai una per te. Siamo due naufraghe. E ci stiamo separando. Tu non ti guardi neanche più allo specchio. Io passo ore a truccarmi e struccarmi, su quel letto a castello che di principesco non ha proprio niente. Tu stai andando alla deriva, io mi aggrappo al mio corpo per non perdermi. Voglio stare dove c'è più vita, più abbondanza, più spazio, più agio, più compagnia. 
Tu mi incoraggi e parli dei miei talenti. Mi vedi come cantante, dottoressa, imprenditrice. Mi dici di stare attenta agli uomini, perché le donne forti finiscono con i parassiti. Mi dai il compito di migliorarmi per salvare anche te. Mamma, mi dispiace vederti così. Tirati su. Trovati un nuovo lavoro. Prendiamo una casa più grande. O andiamo a vivere in una roulotte vicino al mare. Facciamo dei video insieme. Andiamo a stare vicino ai nonni, non mi piace che siamo così sole. 
Mamma, fai qualcosa. 



6.

Eccomi nello specchio. Come ho fatto a diventare così? Il viso duro, deluso, è il mio? Non voglio assomigliare a mia madre. 
La giovinezza è uscita con un guizzo, mi ha lasciato un corpo vuoto che si appesantisce contro la mia volontà. Mi lasceranno anche i miei figli, e cercheranno di non assomigliare a me, di non cadere in un pozzo uguale al mio. Dalla coperta troppo corta è sgusciato via il figlio più grande, la figlia invece si stringe sempre di più per estrarre ancora qualche gemma dal buco in cui mi nascondo, e il piccolo già rifiuta i baci. Tutto fluisce e io rimango al fondo. 

Sono stata alla recita scolastica. Mia figlia era sfolgorante. Passionale, intensa, calata nella parte, riempiva la scena. Io ero in prima fila fra il pubblico, la madre della protagonista. Il mio tempo è finito. Ora sulla scena si muovono i miei figli. Sono stata al mondo come ho potuto, ho dato i frutti che sono riuscita a maturare, succosi e dolci. Ora vorrei solo riposare. 

Ho quarant'anni.



ROSSO RUBINO

Non c'è niente come il vino alle dieci del mattino.

Il bambino è all'asilo, il pollo in ammollo con le patate, tutto ha un ordine e una sostanza, la stanza è rassettata, il vicino di sopra martella con grazia, e a parte il chiodo non penetra nient'altro in questo mattino di spesa e resa. Lunedì, martedì? Che importa, un giorno come l'altro. Ho voglia di vino. Di qualcosa dovrò pure nutrire le ore sino all'uscita dall'asilo. Qualcosa di incidente, porpora e rilucente, un vizio, uno scivolone nell'indulgenza. Con qualcosa dovrò pure dissetarmi, prosciugata dai figli e dalla noia.

L'agente mi ha detto che ho un buco nel mio curriculum tabellare. Tre anni spariti nel nulla, risucchiati e persi. Il buco nella cronologia del lavoro è una macchia. Significa autodenunciarsi per inerzia, incapacità e deragliamento. Ho perso tutti i treni che sono passati, e per lo stordimento che sento, devono essermi passati sopra. I cavalieri del lavoro sono andati avanti, io sono rimasta indietro e sprofondata. Chi mi vorrà prelevare da questo buco? L'agente consiglia di riqualificarmi come segretaria. Bisogna coprire la falla e arrendersi alle riparazioni. Non è banale il lavoro di ufficio, eppure all'idea della segreteria mi affliggo. Cosa c'è di segreto nella segreteria? Una donna che sta alla scrivania otto ore se non nove, visibile ogni istante e legata all'archivio: e come posso diventare questo, io che andrei a chiudermi in bagno per sottrarmi all'esposizione? Al momento non mi assegnerebbero neppure un bambino da portare ai giardini, cercano solo nanny inglesi.
Cosa sa fare?, chiede l'agente. Rispondo: scrivere. Insiste: padroneggia sistemi CMS e PIM? Mi arrendo. 

Mi sento al palo, e ora capisco questo modo di dire: ho tirato su tre figli, ho peccato di fatica privata, ho affinato il vizio del tedio con mattine vuote, pomeriggi al parco e domeniche perse con nuove madri conosciute al parco in nuove stanze dei giochi, percorrendo un raggio di vita di pochi metri, e conformando la vista al palo.

Resto al colore del vino.

lunedì 14 settembre 2015

Sag es mir

Sag es mir, was soll ich machen, wo soll ich suchen, wo soll ich finden den Teil von mir, der den Raum verlassen hat, und das Haus, und die Eylauer Straße und die Schätze, was soll ich machen mit diesen leeren Händen, wo soll ich sitzen, wenn das Sofa die Abwesenheit bezeugt, wen soll ich fragen, wenn ich nichts fragen darf, wie kann ich mich beruhigen, und wo soll ich mich beruhigen, wenn mein Zimmer auf den Schlag der Liebe verweist, was soll ich schreiben, wenn ich nichts sagen darf, wo ist der Mond, der den Kummer bestrahlt, jahrhundertelang und für die Ewigkeit, was soll ich trinken, wenn mein Mund so bekämpft wird, wo ist das Meer, das die Wurzel meiner Weiblichkeit lindert, wo ist das Wasser, das meinen dürren Körper besänftigt, wie soll ich hoffen, wenn mein Ruf in der Nacht stumm ist, wo ist der Teil, der mich füllt, schlägt, stürmt, brennt, überwindet und benetzt, wann soll ich aufhören, mich zu bestasten, wann soll ich aufhören, die Amputation zu erkunden, wann endet der Krieg der Liebe?


domenica 3 maggio 2015

La Casa



1



Aspetto da molti inverni. Aspetto e non succede nulla.
Un lunghissimo tempo è trascorso. Non ricordo bene gli eventi e i maltrattamenti, o forse ricordo troppo e divento vecchia. Da molte stagioni sono sola. Non che mi spettasse una sorte diversa, ma questo vuoto assomiglia alla morte, e tuttavia vivo.

Mi hanno messa qui tanto tempo fa. Allora era diverso. Molte attività si svolgevano nei campi attorno. C’erano buoi e arnesi da campagna, parecchi uomini venivano dalla Signora a portare le insalate o le patate, e da marzo in poi i rumori erano sempre presenti – a volte severi, secchi, altre volte simili a campane.

C’erano anche le feste. Non spesso, ma nel tempo del raccolto mi potevo aspettare molta gente attorno, vapori, pietanze, una lunga preparazione, gesti ripetuti, suoni sovrapposti. Le porte sbattevano e questa era un’esperienza notevole. La Signora faceva lavare tutto, le finestre, le tovaglie, le coperte; faceva spostare la credenza in cucina, allora la luce esplorava gli angoli nudi nella stanza. Il sabato di mercato acquistava una nuova porcellana a cui dava sempre il posto d'onore. La Signora era indaffarata, e si curava più del solito dei centrini e delle tende. Questo mi piaceva particolarmente: erano tessuti splendidi, bianchi e turgidi, ricamati finemente. C’erano in quei giorni dei riflessi dorati nel cielo: era la stagione succosa in cui la terra si spreme per dare le riserve per l’inverno, e l’aria si incendia come un falò di ringraziamento. Arrivava poi il primo freddo: lo si poteva sentire nei vetri delle finestre, che diventavano a sera più rigidi e serrati.   

La serratura del portone d’ingresso era di ferro, molto pesante, solida. Prima che arrivasse la notte veniva fatta scorrere attraverso il legno: ricordo ancora quel suono e l’effetto della materia. Ora la serratura è stata sostituita e questa privazione cambia molte cose. Nessuno però ne comprende gli effetti, tranne me.

Di un elemento particolare avevo terrore. La Signora amava accendere candele in ogni stanza. Le pareti si animavano d’ombre e scendeva un silenzio denso, religioso. La luce riscaldava l’interno, come se dopo tutta l’attività fuori bisognasse risolversi a tornare dentro, a raccogliersi. Ma io avevo paura del fuoco. Una volta la minaccia ha preso vita, il fuoco è stato scaltro, vorace e io ho temuto davvero che stesse per divorare tutto. A volte la Signora dimenticava quale forza possegga una fiamma.

Qualcosa è successo ad un certo punto. Devono essere cambiate le condizioni, perché da una certa epoca in poi la Signora ha cominciato a comportarsi stranamente, a parlare con degli individui che venivano di giorno, e una domenica dopo la messa è tornata e non era la stessa persona, ha cominciato ad aprire i bauli, a spostare le cose, a sistemare alcuni oggetti in un angolo.

Da allora qui attorno tutto ha preso un altro corso. Se ne sono andati.

All’inizio credevo che sarebbero stati via qualche tempo. Le candele attendevano ritte nei candelabri e le tendine residue erano inattive e incredule, appese fra dentro e fuori. Dopo un certo tempo ho cominciato ad accorgermi degli odori. Senza nuovi passaggi di persone, animali e pietanze, potevo concentrarmi sugli odori permanenti, sulla memoria delle ceneri nel camino, dei sughi sulla stufa, della polvere sulla cornice dei quadri. Anche adesso se mi concentro sui cuscini, ne avverto la memoria acre, pungente, e insieme dolce, di nuca e di lacrime. In quei tempi di solitudine, mi pareva persino che le marmellate nei vasetti rilasciassero un’allegra fragranza di fragole. Sarà perché nei giorni di preparazione, la Signora cantava sempre. Il legno ne ha uno lungo, vivo: è l’odore più solido e protettivo, e si irradia dalle assi del pavimento. Era una splendida quercia e vive ancora in questa forma. I muri invece sono fragili. Deve essere per via dell’intima essenza porosa. Si fanno attraversare dai vapori e dal freddo e ne prendono l’incostanza.    

Ho atteso per molte stagioni che venisse qualcuno da accogliere.
Nessuno è tornato, da lunghissimo tempo nessuno è più venuto. Un giorno hanno cambiato la serratura, hanno finito il lavoro fuori e sono andati. Non si sono preoccupati di venire a vedermi.
Poi non è successo più niente. Il freddo si accostava ai muri, penetrava dal suolo capillarmente. La stagione del raccolto volgeva al termine, ma nessuno aveva più seminato. I campi restavano sterili delle patate che una volta avevano custodito. Ogni tanto si avvicinava una famiglia di ricci. Sono bestiole delicatissime, giocose. Hanno molti nemici e i piccoli devono apprendere ad essere guardinghi, ma la loro natura è pacifica, estroversa. Sono stati disegnati con un sorriso che permane nonostante la fragilità della loro esistenza. Questa famigliola di ricci veniva con le prime luci, attraversava con rapido passo il campo abbandonato raccogliendo la rugiada e l’innocenza precoce della terra. Non so bene cosa cercassero. Poi non sono più venuti.  
Solo gli uccelli continuano a farsi vedere, ogni stagione diversi stormi, a ogni ora diversi esemplari. So perché vengono.

Qui tutto è cambiato. Il silenzio ha preso il posto delle voci. La terra si è fermata, riposa pigramente. Da là dentro vengono fuori radici, erbe, germogli, ma hanno un tono differente. Un tempo gli alberi di fronte erano carichi di pere. Ne avvertivo la gialla melodia.
La Signora aveva un luogo preferito. Era una parte lasciata incolta: lì si intrecciavano rovi, denti di leone e fronti di ortica; insetti minuscoli li sorvolavano inebriati (tanto minuscoli che solo con un’estrema concentrazione riconoscevo in quella manifestazione frenetica un capo, un torace, un addome, ali, zampe, bocca e antenne, un apparato digerente, nervoso, circolatorio, respiratorio, secretore, escretore, riproduttivo, dunque esofago e ovario e ano e tutto il resto, anche il cuore, e i desideri vitali). Il disordine di questo luogo era consolatorio: le declinazioni del verde, le forme diversificate, le stratificazioni, gli intrecci e le ramificazioni regnavano di diritto secondo propri comandamenti. La Signora vi si recava spesso, portando talvolta un biglietto ripiegato.

Ora ogni luogo è incolto e desolato.
L’inverno è una lunga prova. Ci sono volte in cui la pioggia cade per tutta la notte, rimbalza nelle pozzanghere, si sfoga in rivoli e impregna la terra. Ne sento gli effetti in ogni fibra per giorni. Il gelo assottiglia i vetri, li indurisce, li tende sino al punto in cui paiono sbriciolarsi. Nessuno viene ad accendere il fuoco, nessuno viene a vedermi e io sto diventando vecchia. Sento le pietre che sono qui dall’inizio della creazione, la loro umidità ascendente, avverto le ragnatele sulle travature, il passaggio d’aria nel camino, e il vuoto del tempo senza voci.





2



Oggi sono venuti. Era una Signora nuova con affianco un Signore.
Ho sentito i passi dal fondo della strada, il movimento dell’erba, i rumori dei corpi. Si sono avvicinati, le voci sono penetrate nei muri esterni, sono risuonate nel grande vuoto di questi anni d’attesa. Hanno manovrato con la serratura, forzando un po’. Poi il portone si è aperto cantando, è entrata un’aria meravigliosa di crochi e ranuncoli, una vibrazione luminosa e dolce! La Signora nuova aveva una voce incantata, entrando in casa ha aumentato la sveltezza dei passi, la quercia delle assi sotto il suo peso ha sbadigliato, si è stirata, e tutti i muri sono rimasti in attesa. Un movimento d’aria improvviso ha attraversato la stanza centrale. La Signora si è girata più volte su se stessa, come una bambola, ma quando ha visto le due grandi finestre crociate che guardano il giardino si è fermata. Il Signore si è avvicinato alle vetrate e ha aperto le ante. Il telaio ha cigolato sommessamente e poi è accaduto che ogni pietra, ogni asse, ogni quadro, ogni bicchiere nella credenza si è orientato a quel fatto nuovo, l’ingresso inatteso di un vento sabbioso e mite. La Signora si è affacciata e ha misurato con lo sguardo il campo attorno, ma poi è rimasta alla finestra in un modo diverso, con le braccia sul telaio come a immaginare il risveglio di un mattino futuro. Anche la mia prima Signora faceva così.
Il Signore ha percorso la stanza centrale e si è spinto nella seconda sala, ha aperto il ripostiglio degli attrezzi, ha provato la serratura dell’accesso al giardino, che è bloccata, ed è salito per le scale dispiegando sotto gli scarponi una polifonia di crepitii e gemiti.
La Signora è rimasta a lungo alla finestra, poi gli è andata dietro misurando i passi. In una delle due camere con i grossi letti in legno hanno parlato sommessamente. Sembravano a disagio, la voce doveva tornare indietro in un modo inaspettato. Poi sono scesi, hanno chiuso la finestra e si sono avviati verso il portone. La Signora si è fermata sulla soglia. Guardando lentamente verso l’interno ha appoggiato una mano sulle pietre: un breve contatto, un sigillo.

Lungo la strada si sono baciati.

Poi per giorni e giorni non sono più tornati.




2016



La Signora è molto agitata. Oggi arrivano gli ospiti.
Sono mesi che vengono preparate le stanze, ordinati mobili, confezionate marmellate, predisposti gli attrezzi nella ex stalla. Il Signore è molto abile in simili lavori: ha lasciato tutto com’era, ma i colori nelle stanze sono diversi, e l’acqua che scorre sotto la sabbia non trova più la strada verso i muri. Ha sistemato anche dei rubinetti esterni, un campo da coltivare, aiuole con erbe aromatiche, e due asini.    
La Signora si muove dentro e fuori come una fata, appende quadri, sistema i fiori, e di tanto in tanto si ferma a guardare il vecchio pianoforte che è tornato in vita. Il grosso cane la segue dappertutto con un gran fiato.

Oggi arrivano i bambini.

Non potevo immaginare che sarei diventata un centro di guarigione per bambini, e che io stessa sarei guarita da così tanto abbandono.

La Signora si gira spesso a guardarmi, e appoggia una mano sulle pietre, come la prima volta. Adesso non penso più così tanto alla mia vecchia Signora. Sento avvicinarsi i bambini, e le rondini stanno tornando.


Io sono la casa.



venerdì 24 aprile 2015

Here is what I have

big nose
little fingers
no pose 
&
so much poetry

lunedì 29 dicembre 2014

Prager Platz

Ci incontrammo sotto la statua del Verkehrsturm in Prager Platz. In corrispondenza del braccio destro del monumento, celebrazione del primo uomo-semaforo, lo vidi arrivare in lontananza, entrare da Doktor Handy e uscirne dopo qualche minuto. Io ero in anticipo e avevo uno sguardo privilegiato sui movimenti altrui. La piazza era brutta e dominata da un cantiere aperto, un ventre squartato che ora veniva squadrato e ripartito in lotti. Questo era stato il destino delle città sotto il regime, soffocate prima da monotoni Plattenbau di tipo estensivo e ora da catene commerciali di basso profilo. In quell'ora di punta ne uscivano donne dalle borse rigonfie di cianfrusaglie, misera illusione di abbondanza.
Ci recammo al Kunst Café sulla riva destra dell’Elba. La chellerina solerte ci portò della birra scura schiumosa che bevemmo subito. Per cena si andava da sua madre, perciò decidemmo di mangiare qualcosa prima.


Nella sala da pranzo ogni oggetto, ogni quadro, ogni fonte di luce erano tenuti insieme da una forza ordinatrice. Le mele rosse e gialle, il grande cesto con le noci, il candelabro di vecchio argento; sotto l’arco un bassorilievo posato a terra, testimonianza di altrui rovina, di rapace sottrazione. Non esiste ricchezza che non abbia avuto origine da una depredazione, per quanto seppellita nel passaggio di generazioni. La madre sedeva su più cuscini avvolta in un ampio tessuto. Non si poteva dire che fosse trascurata, ma la sua persona emanava un senso di misura stretta. Alla sua destra fumava una grossa zuppiera, alla sinistra attendeva un piatto di formaggi. Era lei a servire la minestra, due mestoli a testa. Il piatto con i formaggi restava al suo posto e non sarebbe stato offerto: per ogni cosa bisognava chiedere. Il patrimonio non era campo di partecipazione, esso si manteneva e si nutriva con un severo senso della misura. Nessun materiale nella casa – uno dei tanti immobili di famiglia, spartiti in fondazioni e in rivoli sotterranei – era meno che pregiato. Ogni acquisto – un tavolo, un quadro – era anche una forma di investimento, ancoraggio di capitale. A questa logica avveduta si sottraevano solo i beni alimentari di uso quotidiano. Non uno di quei beni messi a maturare, come una certa bottiglia di whisky, o altra rarità che a quel livello di società si amava scambiare per suggellare un’appartenenza. Il cibo veniva consumato con prodigalità e acquistato in supermercati dozzinali. In contrappunto a quella consistente e solida abbondanza materiale, per la propria sussistenza valeva l’uso di mantenersi sotto la soglia della sazietà. E così per i propri ospiti, così per i propri figli, a cui si misurava il pane. La donna si serviva ora con indifferenza dal piatto dei formaggi, che rimaneva alla sua sinistra, fuori dell’ambito di diritto di noi due, che avevamo il piatto fondo vuoto. In pochi minuti il pranzo fu terminato. Io e lui ci scambiammo rapidi uno sguardo e io posai la mano sul mio ventre, ammiccando all’oca mangiata nel Kunst Café.

È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei liberi di cuore.

Dresda, 25 ottobre 2014

domenica 18 maggio 2014

LA BAIA

Sino a quando potrò stare qui nella baia sotto la luna radioelettrica senza disintegrarmi in  particelle gassose di buio primordiale?

Il fianco della montagna respira insieme agli animali predatori, manifestandosi dal buio all’ultimo momento. Non è il suo cuore che percepisci, ma involontari cedimenti nella tenuta, una fonte che suda, un sasso che si stacca. E la montagna intera è ben oltre la capacità dei sensi, molto più grande e dolorosa, indifferente nella sua abitudine ai millenni.

D’improvviso una civetta lancia un grido misterioso; lo perde fra i rami, lo ripete; lo frantuma contro la montagna.

È freddo, ma il corpo non sente aggressioni; solo il liquido lunare fa paura, quando l’acqua si ferma. Allora lo splendore stridulo diventa orribile. Pure la montagna trattiene il fiato.

C’è una presenza con me di vedetta.

Non sai da quanto tempo noi siamo qui, a cercare di dimenticare.

Chiedilo alla civetta.


Presso la luna il senso d’inquietudine cresce come una marea, ma dietro c’è solo buio. Non sappiamo dove andare, e il buio non finirà.

La luna, vedi, questa luna è orribile. È un’altra luna.

C’è stato un fruscio. L’ho avvertito nettamente, anche se era lì dietro e non potevo guardare. Ce ne sono altri, oltre noi.

L’acqua è un essere attivo. Sta montando le mie memorie con una lucida intelligenza. Le onde si appiattiscono, man mano che i ricordi vengono dimenticati. La montagna respira affianco.

Ora non fa più male. Io ho quasi dimenticato tutto e forse il trattamento è finito. Vorrei dirti di stare dove sei il più a lungo che puoi.

Da quanto tempo aspettiamo? Il tempo è la struttura più dura da sradicare. Forse è per questo che ancora non vengono. Fisso l’orizzonte, non ho altro da fare ed è l’unica cosa che conta. Quello che ci sta facendo quell’occhio fisso, petroso e stridulo è terribile. È tutto così indifferente. Gli altri sono solo presenze. Siamo qui nella baia e non possiamo intenderci in alcun modo.

Questa però non è calma. Non è neanche tristezza. Non è notte perché non c’è stanchezza. Non è sogno perché non c’è sonno. Non è natura perché non ha radici. È solo il trattamento.

Chi fossi dall’altra parte non lo so più e per loro non ha più importanza. Per me naturalmente sì, l’aveva. Ma adesso c’è tutto questo buio e dovrebbe fare freddo qui nella baia, ma non si può sentire niente.

Ognuno qui ha una presenza affianco. Si sentono degli zoccoli schiantarsi nell’emisfero della baia, dei gorgoglii rapaci.
  
Il trattamento deve aver avuto dei buchi perché improvvisamente ho ricordato qualcosa e ho sentito una fitta molto forte e un dolore. Ho ricordato i colori. Dall’altra parte c’erano tutti quei colori, tutte quelle vibrazioni sovrabbondanti.

Lui era sempre accanto a me e quando ho cominciato a ricordare queste cose ha mosso un po’ la testa, che aveva sempre tenuta fissa verso l’orizzonte. Laggiù c’erano tutti quei drammi.

Laggiù c’era l’amore.

Quando ho detto nella mia mente questa frase, come se fosse un altro a parlare, ho chinato il capo sconfitto. Ho ricordato un momento in cui andando incontro a una persona che mi sorrideva, ho sentito riverberare un forte calore come un bagliore dolce. Stendevamo le braccia orientando le mani, come se fossero antenne per sentire. Ogni cosa amavo di questo essere, la forma che le molecole avevano preso partecipando al suo insieme, il modo in cui i muscoli della bocca contribuivano ad espanderne il sorriso, e le mani giovani del neonato che s’era fatto uomo. Non c’è confine fra un amore e il costante pericolo di morte. Adesso so che eravamo chiamati per il dramma, e che era una grande scena.

Tutto quel tendere, e sperimentare, quell’accendere e quel partecipare, era questo che volevano. L’umanità. La guerra che non ha compreso la perdita. Bastava ricordarsi dei colori.

S’è fatto uomo per patire sulla terra delle passioni.

Vorrei dirti di stare dove sei, perché non avrai molte altre occasioni. Il tuo dramma è il colore che ti è stato assegnato.

Ed è il più bello per te.

Qui non c’è rumore, perché nessuno chiama i compagni. Nessuno mi chiamerà, nessuno si muoverà per cercarmi.

Laggiù c’era la compassione.

Sai immaginare una notte senza temperatura? Un freddo senza sofferenza? L’altrove è molteplice, ma ovunque non potrai trovare il sole.


Sono arrivati dallorizzonte scivolando sul liquido lunare. Le barche erano strette e lunghe, e loro sottili e senza volto. Quando arrivano non c’è tempo per pensare, è l’ora.

Come senza peso sulla barca è salita anche la guida che aveva vegliato con me sull’orizzonte, un cavallo bianchissimo rilucente.

Per un attimo che non aveva tempo un vortice di panico mi ha risucchiato. Ho un’altra occasione sulla Terra, un’altra vita da patire. Ma nell’aldilà non potrò ricordare questa lastra liquida dove si viene portati infine, la baia dell’attesa. Laggiù tutto è dimenticanza, abbaglio del sole, abbondanza.


3 aprile 2014
Tutti i diritti letterari di quest’opera sono di esclusiva proprietà dell’autore.

Microeconomia attorno al Berghain

Esiste un luogo a Berlino, una ex centrale elettrica, che viene considerato un tempio. Il tempio della musica elettronica: il miglior club techno del mondo, un imponente e misterioso edificio fra Kreuzberg e Friedrichshain che al suo esterno non lascia trapelare niente, se non le vibrazioni sonore più basse che scuotono la terra. Il Berghain è un club, e, secondo molti, senza la droga non esisterebbe.
Per capire cosa succede attorno a questo tempio, bisogna frequentare l'area circostante verso le cinque del mattino. Può capitare che a quell'ora ci sia ancora la coda, o una nuova coda, davanti all'ingresso. E molto altro.
Nell'area che conduce al tempio, altrimenti vuota e desolata, si esprimono i fattori microeconomici della discoteca. Attorno alle persone in coda nuotano raccoglitori di bottiglie vuote come pesci pulitori, trascinando buste di plastica rigonfie di vuoti da 0,8 centesimi. Accanto al marciapiede lungo la strada sosta una lunga fila di taxi che attendono di raccogliere gli avventori storditi. Lì accanto, un imbiss fornisce per tutta la notte bevande e cattivo cibo di prima necessità. Più indietro, verso la ferrovia urbana, sorgono gli edifici dai colori quasi fluorescenti di un ostello, meta dei turisti che si recano a Berlino proprio per una serata - una nottata o un intero fine settimana - al Berghain.
Esiste un altro settore economico che ruota attorno al tempio: la circolazione della droga - di quale tipo non saprei dire.
Questa è solo l'economia di contorno. C'è poi il denaro che circola nel club: 12, 15 o 20 euro per l'ingresso, più il guardaroba e le consumazioni. Per una nottata al Berghain, anche se non si vogliono bere alcoolici, bisogna investire una certa somma almeno in acqua: il fumo (sintetico, di sigaretta e altro) è talmente denso che brucia la gola.

La mia prima volta al Berghain è stata non programmata.
Nel pomeriggio ero andata a trovare un'amica presso il suo banco al mercato. Dopo aver discorso a lungo sulle sue vicissitudini, salutato tutti i colleghi concedendosi ancora una birra, e passato interminabili minuti ad organizzare la serata, mi convince ad accompagnarla al Berghain; prima però vuole tornare da lei per bere due caffè. Indugia così tanto che alla fine usciamo di casa quasi alle due di notte - sicuramente per non andare al club "troppo presto". Io ho una giacchetta nera ridicolmente leggera, e lei mi presta un mantello di lana sintetica, con il risultato che sembro una nonna incinta: ma la notte fuori può essere molto lunga.
Da Britz pare di non poter arrivare mai. A Ostkreuz bisogna cambiare. Fa già freddo e attorno a noi circola la dubbia gente della notte berlinese: gruppi di ragazzi con le bottiglie di birra in mano, tifosi che inneggiano alla squadra con cori da formazione militare; uomini persi che parlano da soli rispondendo a una voce immaginaria; ubriachi; giovani diretti a Warschauer Strasse. Arriviamo davanti al Berghain alle tre.
Esistono in rete molti ridicoli articoli che dispensano consigli su come superare la selezione al Berghain. In coda verso il tempio sono così presa dalla penosa scena (i selezionatori falcidiano potenziali avventori senza misericordia, e questi giungono le mani in preghiera supplicando di poter entrare), da non accorgermi che è arrivato il mio turno. L'uomo all'ingresso, slanciato, muscoloso e scuro di capelli, che affianca un buttafuori druidico, certamente famoso nel mondo per il suo ruolo ("Che lavoro fai? il medico, l'insegnante, il cantante?" - "No, faccio il selezionatore del Berghain"), mi rivolge una domanda in tono sprezzante, in modo così sintetico che io non la colgo. Lo guardo in modo tranquillo. "Ehi, parlo con te. Sei sola?". Certo, sono sola. Bisogna rispondere così, mi aveva spiegato la mia amica. Non lasciano entrare coppie o gruppi: forse un individuo autonomo e a sé stante può essere più interessato alla buona musica elettronica che all'evento mondano. Sono consapevole di avere un cappotto da nonnetta, ma avanzo di qualche centimetro il piede destro, così che si veda che sotto ho gli stivali neri. Passo la selezione. Ai margini un gruppo di francesi si lacera in un conflitto morale: i due ragazzi sono passati, mentre le due biondine no, e ora i maschi devono decidere se sprecare la loro occasione di accedere al tempio o seguire le ragazze. In ogni caso, sono davvero troppo giovani, e forse il selezionatore ha giocato con loro pur intendendo mandare via tutti (sono sicura che alla lunga un lavoro di quel tipo possa fornire competenze psicologiche finissime).
Una volta dentro, si viene sospinti in un'area buia e spoglia, dove due guardiani del tempio, un uomo e una donna, aprono le borse e buttano via tutto quello che loro ritengono inammissibile; poi passano le mani sul corpo per controllare che non ci siano oggetti con cui ferire o forse armi. Superato il controllo, e lasciato il soprabito al guardaroba, si può ascendere al cuore del tempio, attraverso una lunga scala metallica. Salendo, ci si immerge sempre più profondamente nel buio e nella nudità del luogo, riempito di fumo, luci movimentate e detonazioni elettroniche.

Ci sono due sale, e vari angoli più appartati, una grande piattaforma che funge da altalena vicino al bar e pochi cubi su cui sedersi. Ma il cuore pulsante del tempio è lo spazio al centro, alto diciotto metri, dove un impianto audio prodigioso sbatte contro il cemento armato suoni cupi e metallici, avvolgendo gli avventori in un sisma sonoro. Per me è troppo. Non sento più il cuore, perché è come se i potenti watt lo assorbissero e lo dilatassero, estraendolo dalla cassa toracica. Mi rifugio per qualche minuto sull'altalena, e intanto osservo gli altri. Ci sono tranquille coppie che sorseggiano acqua dondolando sulla stessa piattaforma (perché qui e non sotto le stelle?), gruppi di amici che bevono discretamente, un ragazzo muscoloso che si è rivoltato la maglietta dietro la nuca, scoprendo il petto, una ragazza dal corpo sinuoso e scultoreo, bellissimo, avvolto in una guaina di pelle da giaguaro nero; nessun vestito di paillettes, nessun tacco a spillo, nessuna esposizione di cattivo gusto. Tutti sono assorbiti dal buio, dalle nubi fumose, attraversati da tagli di luce rossa o da lampi improvvisi. Decido di provare a stare per un po' al centro, sotto la fonte di vibrazioni. Ognuno ha poco spazio per sé e si muove appena: non è una vera danza, è un dondolio di assorbimento sonoro. Cerco di stare attenta alla musica, seguendola con gli occhi chiusi. Il DJ sta cercando di dire qualcosa, lavora, improvvisando e ammorbidendo, ad un'architettura complessa, che però ha un fine; sento come avvolge di ritmi irregolari flussi interrotti di melodie, sollecitando tutti gli organi interni uno ad uno. Il DJ non solleva mai lo sguardo, indossa degli occhiali con la montatura bianca che sono come una maschera da saldatore. Lui non salda ma spacca, divide il ritmo irregolarmente, mentre un conglomerato di bassi altera la fisiologia del corpo. Non pensare, fidati delle scosse sintetiche, dondolati mentre il Dio-suono irradia dal centro vibrazioni neuro-linfatiche.
Mi sono alzata alle sei, e ora sono quasi le sei del giorno dopo. Come fanno gli altri ad andare avanti senza cedimenti? Mi torna in mente la frase con cui mi avevano presentato il club underground: il Berghain senza la droga non esisterebbe. Mi chiedo se il mondo fuori stia continuando ad esistere come prima che entrassimo qui, se là permangano ancora la luce e la variazione ciclica del giorno e della notte. Decido di scendere dal luogo sacro del tempio al piano inferiore e davanti al guardaroba trovo dei divani su cui provo a dormire mezz'ora. Della mia amica ho perso le tracce, è impossibile trovare qualcuno sotto i colpi dei raggi psichedelici. Dopo un poco viene portata a braccia una ragazzona bionda, trascinata fuori da due uomini e adagiata su un divano. La ragazza ha gli occhi aperti, ma è come se non reagisse, i piedi non la sorreggono, e scivolano sul pavimento mentre i due la traggono fuori dall'influenza del Dio-suono. La lasciano lì, io riprendo sonno. Dopo qualche minuto viene una donna, silenziosa e dallo sguardo fermo. Mi dice: Vai a casa. In effetti è quello che voglio fare, sto solo aspettando l'alba per non uscire nel buio. Poi va dalla ragazza in trance (immagino per sostanze assunte), le si siede accanto e le fa un discorso pacato, in inglese.
Mi dico che le vere star là dentro non sono i geni della techno, non l'impianto 6.1 surround, ma i professionisti che lavorano impeccabilmente in un luogo opaco e alterato perché non succeda niente di grave a nessuno.
La notte al Berghain mi lascia un senso di inquietudine. Mi vengono in mente pensieri distruttivi, analogie con i bombardamenti, con le folle ammaestrate. Bagni di suono come bagni di propaganda. Penso che la gente sia soddisfatta nello status di seguace, sotto lo sferzare di impulsi forti, di pugni come di sismi elettronici.
Quando esco trovo ancora la coda, e le stesse discussioni di chi non passa la selezione. La gente arriva e va in continuazione, entra alle dieci di sera, alle due, alle sei del mattino. Alcuni entrano il venerdì ed escono la domenica. Si chiudono in un mondo parallelo, di cemento armato, dove non esiste più il giorno. All'uscita mi viene incontro la luce sottile e ancora pallida dell'alba. Passo la coda, l'imbiss, la fila di taxi, le facciate dell'ostello, e provo sollievo per strada. Improvvisamente la città ha sputato fuori della gente comune: persone che alle sette, con le facce lavate e le valigette o le borse, vanno al lavoro di sabato mattina. Nella stazione metropolitana però ci sono i segni della notte appena passata (che lì dentro, nel Berghain, non finirà che fra due giorni): esplosioni di vomito, bottiglie di birra per terra, sputi, sacchetti di carta residui, un paio di ragazze con le calze nere smagliate, ovunque tracce di passaggio umano. Il personale della metropolitana si muove con grandissimo spirito in mezzo a tutto questo. Seduta in un vagone semivuoto, ritrovo altri personaggi persi, uomini che transitano con buste di plastica e una bottiglia di birra aperta, pieni di parole che si affollano in testa e che fuoriescono dalla bocca in sussurri luciferini. Voglio solo tornare a casa, lavarmi via il puzzo di fumo e dormire.
Tante cose interessanti ho scoperto in questa città, soprattutto le storie delle persone, biografie passate attraverso la DDR, l'Ucraina in guerra, le prigioni iraniane, i ricongiungimenti familiari, la New York troppo esigente a cui ora si contrappone la capitale tedesca. Volevo ancora sapere cosa si fa a Berlino di notte, che poi è solo un aspetto di quello che vi viene fatto di giorno. Ho incontrato molte dipendenze. Litri e litri di birra e di vino consumati a tutte le ore, se non vomitati in metropolitana, senza pudore di fronte agli altri che guardano. Ricerca di stordimento, bisogno di appartenere a una scena, di adeguare l'abbigliamento e la postura a un modello, consumo di droghe, facile sperpero di soldi, ricerca di esperienze da divulgare sui canali comunicativi, bisogno di un sogno collettivo in un oblio radicale della natura e della salute.

In un libro ho letto: "Il futuro del mondo è affidato ai gialli e ai marroni adesso che i nostri ex padroni, i bianchi, stanno precipitando nell'abisso della sodomia, della tossicodipendenza e dell'abuso di telefonia mobile".

Tutti i diritti letterari di quest’opera sono di esclusiva proprietà dell’autore.

domenica 13 aprile 2014

Burrasca nella città di porto

Festoni di cirri
circondano
l'antemurale del porto
e nel rapido autunno
delle botteghe
scrosciano serrande
a difesa dei baccalà
e dei sott'olio.
Al di là del molo
occhieggia il faro
nelle pieghe dell'onda.
Il passante ne segue
la cadenza dalla sponda
mentre s'affretta ai portici
con le mani in tasca
prima che smuova il cielo
la burrasca.

Resti

Lievita un nuovo amore
e nel suo albeggiare rosato
s'ammala accigliato
di timore e sgomento
che di tutto l'ardore
e lo stordimento estivo
resti una spoglia
di cicala nel vento.

martedì 31 dicembre 2013

Family

FAMILY

È colui che più ama la propria famiglia che ne diventa il peggior critico. Chi riesce a sorvolare su troppe cose, a fare buon viso a cattive usanze, non dando peso ai vizi e alle credenze, in fondo non ha a cuore gli individui della famiglia, ma solo il proprio quieto vivere. I suoi fratelli, ad esempio, lo deridevano perché lui se la prendeva maledettamente per l'abitudine che avevano i genitori di riempire gli scaffali di medicinali e di rifornire ogni stanza di calendari della farmacia, con un diabete o un Alzheimer ben esposti mese per mese. Non sopportava il tipico modo del padre di alzarsi dalla poltrona o di camminare trascinando le ciabatte come se necessitasse di un girello, per la semplice consolazione di sentire l'inerzia del corpo, o l'ottuso modo della madre di ripetere dei commenti di estrema destra contro gli immigrati solo per sentirsi dalla parte dei forti. Quello che lui sopportava meno di altro era l'atteggiamento della sorella, che non potendo uscire dalla ragnatela della famiglia - zitella  e con un lavoro di contabile per una piccola ditta -, imitava la voce, la postura e persino le parole dei vecchi genitori. Da qualche tempo questa sorella aveva preso ad occupare la poltrona del padre, dove lui usava stare seduto a leggere mentre la moglie cucinava il pranzo, e dove tornava a sprofondare subito dopo il caffè. Ora era la sorella che dopo pranzo si posizionava su quell'avamposto, e da lì controllava i movimenti degli altri, costringendo il padre a cercare rifugio nella camera da letto. La sorella, proprio come l'anziano padre, aveva commenti per tutto e per tutti, e da quella postazione fissa dispensava sguardi. Da piccolo lo aveva sempre infastidito la vacua e pigra presenza del padre, che dalla sua assenza sostanziale si nutriva dell'attività altrui: vagava per la cucina irritando la moglie, compariva come un'ombra dietro il figlio mentre questi ascoltava musica, si avvicinava alla figlia mentre leggeva per chiederle: "Stai leggendo?". L'assenza di relazione veniva colmata con parole, interrogatori, commenti, che grattavano la superficie irritandola, senza mai toccare corde più profonde e vitali.
Era certo che i genitori intravvedessero la tristezza di questa figlia in poltrona che da qualche tempo pareva essersi rassegnata alla sua condizione. Tutte le settimane si presentava per il sacramento del pranzo domenicale, si sistemava sulla poltrona, e si disponeva a tessere per ogni fatto della vita e della giornata un commento. Ultimamente non finiva neanche più le frasi, tanto era impegnata a riempirle della propria voce: cominciava un'osservazione per poi virare verso un altro enunciato neppure ben articolato, consistente in un'autoesplorazione del proprio vuoto, un susseguirsi di "vedi, è proprio così che uno poi... ah bene, sei riuscito, del resto non è che tutti possono farcela, ma tu sei proprio quel tipo di persone che... hai visto com'è buio già? eh, sarà lungo l'inverno, per me che mi devo alzare presto, eh, così è... chi è, la Betta? eh, dille che poi la richiamo, eh, c'è chi ha tanto tempo, proprio tanto... hai visto che è sceso il freddo? non mi dire che è già arrivato l'inverno! estate o inverno, io mi devo sempre alzare presto lo stesso... ah, dovrei proprio andarmene su una spiaggia... ma prendere il treno pure in vacanza, uhm... adesso si lamentano tutti dei treni, eh!, quanti anni ho viaggiato io in piedi come su un carro bestiame, ora si sono svegliati tutti... ah, bello quel maglione, te lo sei messo, sembra caldo, cos'è lana? misto? eh sì ora ci vogliono i maglioni più pesantini... ah, l'hai usato allora quell'orologio? cos'è, a molla? bello, triangolare, ora si usano tutti così, questo mio è vecchio ormai, ma tanto, eh, che vuoi farci, va bene lo stesso...". Poteva andare avanti così per ore, con voce tediosa e mal controllata, nella riduzione del creato alla sua misura.
Lui aveva l'impressione che ai genitori stesse bene così, anzi, che loro avessero in segreto cullato la speranza che la figlia rimanesse vicina e fedele. Proprio quando stava cominciando a chiedersi se i suoi pensieri non fossero esagerati, la sua bambina, in visita dai nonni, cominciò ad accusare uno strano nervosismo, come se fosse esasperata, sinché senza preavviso non esplose gridando in mezzo alla stanza in preda alla sua prima crisi di nervi: "Basta, state sempre tutti a parlare, sento solo queste voci, basta!". Un altro giorno aveva sentito la sorella giocare con la nipotina, mentre, dando voce ad una bambola, imbastiva un dialogo lamentoso: "Non uscire, fa freddo fuori, dove vai, ti puoi raffreddare, resta qui...". Aveva allora provato moltissima pena per questa sorella, perché "resta qui" era stato il ritornello della madre anche nei suoi confronti, motivato da una serie di ansie per pericoli percepiti in ogni ansa dell'esistenza. La sorella aveva in fondo solo obbedito alle richieste della madre: "Resta qui, dove vai, fa freddo fuori, non andare, qui stai meglio...".
Ciò che le famiglie non dicono - desiderare i figli incapaci di fare le cose, considerare i genitori incapaci di cambiare - è il vero scandalo, pensava.



PARTNER

Succedeva sempre all'improvviso che durante una conversazione al bancone di un bar o alla scrivania, su una questione di lavoro o su un argomento più rilassato, l'interlocutrice cominciasse a guardargli la bocca, fermandosi sugli angoli delle labbra, e non alzasse più gli occhi. Sapeva bene, perché aveva avuto delle corteggiatrici molto esplicite, che disponeva di una particolare esca, una speciale piega che prendeva la bocca quando parlava, che risultava irresistibile. Quando lo sguardo di una donna abboccava, lasciando appesi gli occhi al breve movimento di quella piega, capiva che la sua interlocutrice non lo stava più seguendo. Cominciava allora una negoziazione con se stesso sul da farsi, perché se da una parte a quel punto era facile portare avanti le cose sul piano personale, dall'altra non sopportava che alcune donne trovassero più interessante un dettaglio fisico insignificante rispetto alle parole che diceva. Più in là con l'età prese ad assaporare l'effetto di un certo potere, che poteva esercitare sino in fondo, rendendo ancora più ammiccanti le movenze della bocca e ancora più indifferente il proprio atteggiamento verso la donna. Dopo tanti episodi impuniti, un giorno la ragazza che sarebbe diventata sua moglie l'aveva messo al suo posto, chiedendogli con aria di sufficienza: "Ti trovi molto bello, non è vero?".
Ci aveva poi messo molto a convincerla a sposarlo. Lui aveva una buona posizione e una casa di proprietà in città, più un rudere di villeggiatura che stava rimettendo a posto. Lei era una donna molto curiosa che si era spostata ogni anno per vivere in un posto diverso, perdendo la possibilità di fare carriera, ma restando sempre molto interessata alle storie degli altri e alla propria evoluzione. Pensava che una donna così fragile avrebbe potuto conquistarla in breve tempo, esponendo come una coda di pavone le sue proprietà. Ma lei non era una merce di scambio. Anzi, ciò che la irritava negli uomini era proprio l'esibizione di forza, e ancor di più un certo atteggiamento dell'uomo arrivato che considera l'amore la ciliegina sulla torta, un abbellimento del quadro, un divertissement. Non sopportava l'uomo sicuro della propria posizione, disposto a includere una preda nel proprio territorio, ma non a spostarsi da lì. Sapeva di aver perso l'occasione di trovare un ragazzo suo coetaneo brillante e sincero che avviasse con lei un progetto nuovo, perché quella era l'unica condizione per il vero amore: incontrarsi da due posizioni diverse per muoversi verso un territorio vergine. Di fare la dama di compagnia non aveva proprio l'intenzione. Era vero però che molte giovani coppie che all'inizio avevano trovato un interesse comune in un'attività sportiva o nell'idea di una famiglia da fondare, avevano poi compreso quanto superficiale fosse il loro legame sentimentale e quanto illusoria la loro complicità. In generale per lei i rapporti d'amore erano infatuazioni che poi presentavano un conto salato in termini di riduzione della libertà personale.
Questa volta però non riusciva a smettere di pensare a quell'uomo vanesio e arrogante. Per di più lo incontrava di continuo, senza volerlo, come se il destino volesse prendersi gioco di lei. Lui voleva sempre presentarla a tutti, la invitava a casa dei genitori in provincia, le trovava collaborazioni con la sua azienda. Però c'era sempre un momento in cui lui diceva una parola sbagliata che le faceva capire quanto poco la tenesse in considerazione e quanto poco si accorgesse del suo acume, per esempio stupendosi quando i fatti dimostravano la ragione di lei. Fu così che, anche se alla fine si sposarono ed ebbero una bambina, lei lo lasciò dopo quattro anni. Eppure un episodio l'aveva messa in guardia sin da subito sul valore che lei aveva ai suoi occhi. Fu quando lui le ripetette oziosamente che se lei lo avesse sposato, tutti i suoi averi sarebbero stati suoi; allora lei poco dopo gli aveva chiesto per metterlo alla prova: "Mi regali un libro della tua libreria?", e lui aveva risposto tergiversando vagamente: "Ma no, non so, sono miei... Dai... andiamo di là ora".

lunedì 16 dicembre 2013

Perfect Day

"Upward-facing dog, downward-facing dog, breath! Inhaling, exhaling, two, three, four...".
Venti persone praticavano la disciplina nel locale dell'ex fabbrica di pianoforti sui tappetini ben allineati. La combustione dell'incenso di elemi espandeva nell'aria riscaldata una qualità sacra. Oltre le grandi vetrate risaltava un cielo blu intenso ritagliato da tetti a punta e facciate ricoperte di pitture murali.
La pratica dello yoga allenava il pensiero e l'attenzione muscolare sino ai limiti. Il potenziamento dell'energia avveniva per una miracolosa combinazione di fattori nella più assoluta pace. Dopo sessanta minuti di perfezionamento, restava nella stanza un grande senso di gratitudine. Chi aveva preso parte alla pratica, sembrava "intoccabile".
Percorrendo il verde cortile affollato di biciclette, uno del gruppo uscì nella Oranienstrasse. Entrò nel Bateau Ivre, facendo risuonare il cuoio delle scarpe sulle tavole di legno, e si sedette al bancone. Mentre ordinava un tè di zenzero alla ragazza con la frangetta, in diffusione la voce di Lou Reed cominciò a cantare "Perfect day".
Il 26 giugno del 2017 era un giorno perfetto. In un'altra parte della città, qualcuno l'aveva calcolato, programmato, aspettato.
Il barista stava sfogliando un giornale in un momento di pausa, altri guardavano un piccolo schermo. Si parlava sempre della Russia, l'ex gigante dell'energia. Il mondo era pieno di nemici apparenti, probabilmente funzionali ad un certo sistema. Gli servirono l'ordinazione. Per chi praticava la disciplina ogni giorno, non aveva attrattiva la possibilità di leggere un giornale e al contempo di controllare la posta sul telefono mobile lasciando raffreddare il tè. Bere il tè bastava. Ogni cosa bastava in sé. Aprire una porta per uscire, stendere un braccio in alto e sentire l'elevazione. A lui interessava il potere personale, la capacità di mettere da parte l'ansia o di congedarsi da una situazione usando la visualizzazione. La possibilità di escludere molte informazioni impure gli consentiva di preservare una giusta pace. In una città come Berlino, con tutta quella aggressività compressa nella metropolitana, ma anche un grande potenziale spirituale, non avrebbe potuto fare a meno della sua pratica quotidiana. Si alzò sull'ultima nota della canzone. Aveva appuntamento con un'amica nel Viktoria Park, il suo luogo preferito a Kreuzberg.
Il sole era tiepido ma radioso. Sulla verde spianata in salita due cani si inseguivano a grandi balzi. Una madre con il capo velato tirava fuori da una busta di plastica un pezzo di pane con il sesamo e lo porgeva al bambino. Due ragazzine bionde erano stese sull'erba con gli occhi chiusi e ridevano parlando della scuola. Un uomo con la barba passava più giù portando una chitarra nella custodia. Presso un grande tasso due ragazzi si allenavano lanciando il diablo e ripescandolo al volo. Il traffico della strada si sentiva appena. Era un giorno immobile, pacifico. La sua amica l'aveva avvisato del ritardo, sarebbe arrivata quindici minuti dopo: la gatta era scappata di casa e doveva riprenderla. Intanto lui affondava le mani sul prato erboso, e godeva nel sentire un certo tepore sui fili d'erba ruvidi. Da quella posizione poteva intravedere la croce che svettava sul monumento neogotico di Schinkel, un obelisco in ghisa infuso di orgoglio nazionale. Le due ragazzine ora si stavano sistemando le cuffie, da cui usciva un'opaca intonazione di A Hard Day's Night, mentre il bambino con il pane in mano passava loro accanto incuriosito, richiamato subito dalla madre. Questa fu l'ultima scena che vide, perché in quell'istante ci fu una detonazione violentissima che frustò l'aria e squassò la collina. Fu un attimo molto semplice di orrore purissimo e denso, una discesa in picchiata verso gli inferi. Nessuno delle persone sulla collinetta può raccontare cosa fu ad esplodere, perché vennero tutti dilaniati. Solo l'amica in ritardo, che giunse dodici minuti dopo sul luogo o nei suoi pressi (a stento lo si poteva chiamare ancora luogo), poté raccontare, sotto shock, di aver vomitato annusando l'acre odore di cadavere e di bruciato. Su un terreno squassato, irriconoscibile, si aggirò fuori di senno fra i corpi dilaniati e le sirene laceranti, cercando brandelli del suo amico.
Così finiva a Berlino l'epoca della pace e della pratica spirituale e cominciava una terza guerra.

Ho scritto questo brevissimo racconto ad un mese da una lettura inquietante. Un giorno mi ritrovai in mano un libro scritto da una famosa chiaroveggente berlinese che ad una sua cliente predisse: "Fra diciassette anni ti aggirerai in un parco di una città del Nord della Germania, un parco con vecchi alberi, e ti troverai in uno scenario di sangue e distruzione, con molti morti attorno, come dopo un attentato".

Il 26 giugno 1963 John F. Kennedy pronuncia la famosa frase "Ich bin ein Berliner".
Il 26 giugno 1964 i Beatles pubblicano l'album A Hard Day's Night.
Il 26 giugno 2000 il testo del terzo segreto di Fatima viene divulgato.
Il testo del segreto fu dettato in apparizione dalla Madonna a tre pastorelli nel 1917 e tenuto segreto sino al 2000. Una parte del segreto non è stata ancora rivelata: si ritiene sia troppo sconvolgente.

Tutti i diritti letterari di quest’opera sono di esclusiva proprietà dell’autore.

domenica 15 dicembre 2013

Sul pianerottolo

Non accendere la luce, resta ferma. Stai nell'angolo, nell'ombra, immobile, tieni stretto, intero, il buio che t'avvolge. Se si rischiara, cessa l'incantesimo. Resta ferma per le scale, sul pianerottolo, nell'angolo che il lampione dai vetri non raggiunge, al muro, con le spalle cedevoli, stordita dal fumo e dall'odore di saliva.
Non potevo mettere una distanza, stasera. Un incanto era, la sua bocca intonata alle parole e al desiderio che le tratteneva, tesoro minerale, antro di magnifica miniera. Com'è successo che non potessimo più reggere tutti quei passi vuoti, ridondanti di sincopi, tutti quei centimetri fra le nostre mani?
Piano, fai piano, non spezzare l'incanto, resta ferma al terzo piano, lontano dal portone che s'apre al giorno e ai passaggi, chiudi gli occhi e trattienilo con te, lo stordimento per quei baci a forma di stella marina, nudi come il muscolo cardiaco.
Cerco il buco della serratura alla cieca, entro come un elfo che non lascia impronte, non so più di che sostanza io sia fatta, forse mi hai rubato le molecole del senno, perché non comprendo più dove posarmi se non ti posso guardare. Mi sembra di dover girare attorno, su me stessa, come in un antico folklore di donne possedute. Giro in mezzo alla stanza e poso una mano sulle labbra, le sfioro, sigillo, trattengo, rievoco un'intimità. Cosa vuoi fare con queste mie labbra, dimmelo. Perché domani non mi serviranno più a niente, né a parlare, né a nutrirmi. Mi sembra che di tutti i miei sensi, solo una memoria precisa e attonita abbia sostanza, la dolcissima linea che fa da tetto ai lucciconi dei tuoi occhi.

Tutti i diritti letterari di quest’opera sono di esclusiva proprietà dell’autore.

giovedì 12 dicembre 2013

Fratello Gatto

Di Genova mi piacevano i venti foranei, ampi, che infilavano nel porto antico aria dal largo. Scrivendo degli anni liguri, non sono più in questa piatta landa di Brandeburgo, ma sul molo dei Doria, di fronte ai rimorchiatori, in una bava d'aria che increspa appena il mare, accanto a una fila di gabbiani urbani, sotto il serpente della sopraelevata con il suo traffico d'auto, e nient'altro si muove nella città addormentata.
Genova grigia d'ardesia, dorata di tramonti. Genova di cieli voltati a crociera.

Genova è tutta stretta, di sentieri e case in salita, appoggiata su un'instabile terra di torrente, terrazza salmastra di vedetta, castone di vecchie chiese e rolli, affacciata su una linea di mare giallorosa, su cui scivolano lunghe navi e chiatte, talvolta così lontane e ferme sulla curva terrestre da sembrare sospese nell'orizzonte-ascensore pronte a salire in cielo. 

Di Genova mi piacevano i caffè di Sottoripa, via San Luca, via Banchi, piazza Caricamento, stretti e cantilenanti, ritrovi portuali di una città senza più scaricatori, camalli, hammal arabi. L'aria di Genova è tesa da Boccadasse all'Ansaldo, s'infila per i carrugi, s'apre nel sestiere del Molo, solletica il drago di San Giorgio, sale da Palazzo ducale raccogliendo fragranze di focaccia e vermentino, e sosta a Castelletto, prima di ascendere ai monti. A Genova è tutto un gran salire. 

Abitavamo nel porto antico, era la nostra seconda casa. A Genova eravamo dal 1990 e in quel tempo si preparavano le celebrazioni colombiane. Lo ricordo perché dal 1992 qualcosa cominciò a cambiare, a rinascere. Pur venendo dal Salento estremo, da una dimensione anagrafica minuta, di Genova pensai ragazzina che aveva uno spirito morente, scolorito. In città scoprii gli autobus, che non avevo mai usato, e le creuze in salita, che allenarono la mia muscolatura in un modo nuovo.  

La nostra seconda casa era di moderna architettura, e sorgeva nell'antica area portuale dei Magazzini del Cotone. Mi piaceva molto, anche se essendo un alloggio di servizio della Marina militare, faceva difetto di calore. Non solo era esposta al vento, ma le mancava la protezione dei muri vecchi, solidi, delle mura storiche che contengono le case e le incursioni delle brezze.

Forse per questo senso di isolamento e per un'assenza di comunità (eravamo una delle tante famiglie meridionali al Nord, senza parenti né amici, affacciati su un mare estraneo, troppo profondo, e oppressi da monti inesplorabili), decisi di prendere un gatto. Per me un animale domestico (questo lo ricordo bene) significava allora mettere in famiglia tenerezza a compensare tensione, e anche segnare un nuovo inizio nella nostra biografia familiare. Non se ne parlava proprio: non ci si poteva permettere un tale vincolo. Noi eravamo la tipica famiglia migrante, che programmava l'inverno in vista del viaggio estivo verso Sud. Un gatto non rientrava nei nostri piani di spostamento.

Invece lo presi. A quei tempi ero in amicizia con un compagno più grande di conservatorio. Lui abitava in un brutto quartiere, una di queste addizioni di case periferiche sui monti. Sulla cartina tali appendici assumono la forma di serpentine senza sbocco, un'innervazione di strade prive di slarghi e ampiezze nobili. Di bello però Borgoratti aveva l'accesso ai sentieri, e infatti da casa sua partivamo spesso verso le alture a raccogliere more e corbezzoli per le crostate. Lui mi disse un giorno che una gatta del quartiere era stata vista figliare. Lo pregai di portarmi in esplorazione per le sue vie alla ricerca di uno dei mici. Ricordo che guidavo una Austin blu usata, presa insieme a mia gemella appena avuta la patente. Ad una svolta, scendendo in curva, vedemmo un micetto bianco e nero miagolare davanti ad un portone. Il mio amico scese dalla macchina, lo sollevò per la collottola e mi chiese: "Ti piace?". Io dall'abitacolo risposi di sì e mi presi il micio. Il viaggio verso casa fu drammatico, perché la bestiola, non adusa al trasporto su quattro ruote, pensò bene di farsi una passeggiata sul mio cruscotto e sul volante. 

Non so come arrivammo a casa, io e il mio ospite. Questo micetto bianco e nero, entrato nella mia vita un 31 agosto, strategicamente dopo le vacanze estive e il relativo viaggio verso Sud, aveva "una bella faccia tosta" (cito mia madre), una felina sicumera. Sebbene mi fosse stato subito intimato di portare via la bestia, in un modo o nell'altro Silvestro riuscì a rimanere con noi: e per vent'anni.

Di Silvestro, in quest'alba dei suoi ultimi istanti di vita, nel suo tramonto, ricordo tutto. Averlo in casa da piccolo era un divertimento. Ad ogni risveglio non sapevamo cosa avremmo trovato: chiuso in cucina, di notte si sfogava giocando con le patate o con le castagne, facendole rotolare su tutto il pavimento; chiuso in bagno, faceva dispetto a mia madre (colei che lo voleva chiuso, per difendere almeno le camere da letto) mordendo e srotolando la carta igienica, che riduceva poi in brandelli. Ricordo perfettamente, ora che i suoi occhi sono opacizzati dalla cataratta, il suo sguardo vispo e appuntito, lesto nel seguire le farfalle di carta che io e mia sorella preparavamo con grande spasso. Faceva gli "appostamenti" a mia madre: lei entrava in cucina e lui le saltava sui piedi, tirandole fuori un'imprecazione (però secondo me si divertiva, questa madre un po' dura ma sentimentale). Tutto capivamo di lui, io e mia gemella, sue complici: che voleva bere dal bidet (ci guardava seduto in quel trono bianco e fresco, passando la zampa sui fori di uscita dell'acqua - forse per la memoria di fonti d'altura); che voleva dare la caccia alle nostre prede di carta; che voleva acciambellarsi sul nostro letto, accanto alle nostre gambe e sotto le coperte (non ho mai capito da dove potesse respirare); che sapeva aprire le porte di casa saltando e pesando sulla maniglia; che abbassando le orecchie, mettendo il naso e le iridi a punta, e bilanciandosi sulle zampe posteriori, era pronto a scattare. Sulla pelle delle mani porto ancora la testimonianza dei suoi graffi rapaci, dei suoi serissimi giochi. Quanto abbiamo giocato: ore e ore della mia seconda giovinezza (avevo allora diciott'anni) insieme a lui. Per mia madre, nel suo lungo esilio genovese, è stato un rinnovato vincolo di cura, ma anche un'impronta d'infanzia in quegli anni malinconici con la figlia grande lontana; è stato la sua compagnia.

Ricordo ancora i miei studi al pianoforte. Silvestro si metteva in alto, regalmente composto, con la mostrina bianca in ordine, le zampe bianche perfettamente allineate, avvolte dalla coda in avanti - lo strascico ben disposto della sua pelliccia nera. Mentre suonavo, il suo sguardo seguiva le mie dita leste sulla tastiera: anche a loro faceva gli appostamenti, interrompendo Chopin con un cluster.

Fratello Gatto, in quale stella ti trasformerai quando lascerai questo suolo? Sei un testimone di famiglia. Ci hai seguiti in tutti i nostri viaggi, in tutti i traslochi, in tutte le nuove case, giocando con gli scatoloni e protestando in auto. Ricordo la tua voce quando eri piccolo. Ci hai messo tantissimo a dire il primo "mao": forse non ci ritenevi degni? Voce di ragazzino. Nella tua adolescenza, eri brutto: ti si era allungato il corpo, mentre il muso era rimasto piccolo. Avevi perso gli occhioni da micetto, e non avevi ancora il piglio del gattone. Poi sei diventato il vero padrone di casa, padrone della poltrona, del balcone e del pesce che rubavi a mia madre.

Sei stato il compagno delle sue lunghe mattine silenziose. Tornando dal mercato lei ti salutava, e mentre pelava le patate ti poneva delle domande, come si fa con i neonati muti. Come la tivù, tu non rispondevi, ma eri una presenza invadente. E poi sei andato a stare con mia gemella, che per anni ha desiderato un bambino. Avevi un'adorazione per mio cognato, anche lui così duro e commosso nel prenderti in giro, perché non ti staccavi dai suoi piedi.

Fratello Gatto, ora che te ne stai andando, vorrei riportarti nella tua Genova. O forse sono io che ho nostalgia del suo porto, del suo vento. Andiamo insieme a trovare la Superba.

Sei stato con noi sinché è arrivato un nuovo bambino in famiglia. Nove anni di speranza, nove mesi di attesa. E tu eri lì a raccogliere l'infinito bisogno di tenerezza. Ora che il bambino è qui, nelle braccia della sua mamma, tu ti spegni lentamente, ci lasci, come ogni spirito che abbia compiuto il suo ultimo dovere.

Andiamo a Genova insieme, ascendiamo a Borgoratti e saliamo sino alla vetta più alta, sino ai boschi delle lucciole. 

Era così bello avere l'età che avevamo.